Pittura
Un illustratore, un grafico, un pubblicista, uno scenografo, ma anche un pittore. Tanti modi di essere, tanti modi di esprimersi, ma un atteggiamento costante di fronte al disegnare, al creare, al dare corpo alle idee.
Dal tavolo di lavoro dove trascorreva giorni e giorni ad inventare immagini per far sognare i bambini utilizzando con maestria pennelli e colori, con gli stessi strumenti, ma con maggior fervore, ogni volta che gli era possibile tornava al suo amato cavalletto, dove si sentiva più libero di esprimere la propria vena artistica e di proseguire le proprie ricerche in assoluta autonomia.
Ha vissuto intensamente, ma attraverso il filtro della propria sensibilità, tutti i cambiamenti dell’arte contemporanea, passando dalla figurazione naturalistica al simbolismo, dal futurismo all’astrazione del razionalismo comasco, al neo-figurativo.
Il critico d’arte Alberto Longatti, in occasione della mostra antologica del 1982, scrive di lui:
«Se gli artisti amino esercitarsi in campi diversi, passando con disinvoltura da una tecnica all’altra, non è sempre agevole stabilire una graduatoria dei valori. Nè può essere sempre giusto, anche perchè sotto ai distinguo, ed ai relativi giudizi separati, si nasconde l’insidia della parzialità d’osservazione. Un’opera, in realtà, quando l’autore abbia dimestichezza con I suoi strumenti e lucida consapevolezza degli obiettivi da conseguire, non va esaminata frammentariamente, ma nel suo insieme e negli elementi che si ripetono: negli incastri e nei giunti, nelle cerniere e nei richiami che si celano fra un lavoro e l’altro. Il caso di Libico Maraja mi pare abbastanza esemplare, a questo proposito. La distinzione fra il suo essere da un lato illustratore di libri per ragazzi, dall’altro pittore, è sempre stata netta, precisa, senza possibilità di equivoco o di reciproca influenza; lui consenziente, o tacitamente suggeritore in ciò, quasi che l’accompagnare con figure testi a grande tiratura sia sempre e comunque tutt’altra cosa che tracciar figure per conto proprio. Ma è davvero così perentoria questa dicotomia di atteggiamenti, questa doppia personalità, questa duplicità di funzioni? A me non sembra. Ho piuttosto la sensazione che Maraja sia stato sempre, ad ogni livello del suo operare, fondamentalmente un illustratore, inteso nel senso proprio del termine. Che abbia costantemente “illustrato”, cioè un’entità estranea, qualcosa fuori da se stesso; e che abbia perciò evitato, coscientemente o meno, di proiettarsi direttamente sulla tela, preferendo mediare in una “alterità” di vedute il proprio, personale concetto della vita.»
Di qui la particolare configurazione, e il senso affatto originale, del mescolarsi, a periodi alterni, del realismo con una sorta di espressionismo privo di drammaticità e con l’astrazione.
Nel linguaggio astratto, che dagli anni sessanta domina gran parte della sua volontà rappresentativa, l’oggettualità è tanto evidente da distanziare qualunque sospetto di scantonamento spiritualistico o di gratuito gioco di forme. Infatti, riconoscibile o stilizzato che sia il soggetto, totale e rigorosamente consapevole in Maraja è l’adesione alla materia trattata. Si capisce perciò che non voglia separare, nemmeno nella catalogazione, gli acquarelli dalle tempere, o dagli oli, o dalle innumerevoli tecniche miste in cui si nasconde spesso un piccolo segreto di laboratorio. In ogni caso, è il far pittura che conta: anche nell’accuratezza dell’esecuzione, nella raffinata completezza del campo visuale, ritrovabile anche nelle più modeste tavole inserite nei volumi di letteratura per adolescenti. Una raffinatezza, in quest’ultimo caso, che s’indirizza a sollecitare l’evasione fantastica, ad adombrare sogni, a fingere magie. A favoleggiare, come nelle sontuose scenografie orientali de La rosa di Bagdad – il disegno animato al quale diede una collaborazione non secondaria – davanti ad un pubblico infantile, con lo stesso impegno profuso nel tracciar segni di equilibrata eleganza per un pubblico adulto.
Illustratore, sempre: e con guizzi di vivacità, d’ironia sorniona, che animano le sue immagini del mondo. Del mondo altrui è venuto fuori pian piano, negli anni – crescendo con quel gusto della materia da stendere e graffiare, spolverare o raggrumare, spalmare o premere, creando prospettive coi chiaroscuri ed elaborando volumi coi pochi, asciutti tratteggi – il bonario senso dell’umorismo.
In un primo tempo c’era solo l’osservazione delle cose e la loro resa materica: I paesaggi, le nature morte, le figure umane, dipinte con sensistico naturalismo, corpose e massicce, a pennellate dense. Poi la riduzione dell’astratto, la concentrazione delle forme, pur senza chiudersi in schemi geometrizzanti, senza calarsi in equilibri troppo rigidi e controllati che non sono congeniali all’estro libero di Maraja, ha condotto a suggestioni in cui s’è insinuato, come uno spiritello bizzarro, un modo critico di orchestrare le figure.
Forse c’era già, la tentazione propositiva, ed anche un giudizio morale, dietro le severe forme astratte del miglior periodo di Maraja; e così pare di scorgere profili umani nell’allinearsi, nel contrapporsi di motivi verticali, e un affollamento addirittura di volti e di gesti nelle linee ondulate che si muovono a capriccio su carte e tele, dopo qualche timida eco delle bottiglie di Morandi.
Ma potrebbe essere una sensazione mimetica del tutto ininfluente; come non darei peso eccessivo all’intenzione di inserire un moto intimo, una pulsazione cardiaca, nella serie di composizioni astratte degli anni settanta. Dove non ci si può sbagliare nell’individuazione di un sentimento informatore che avvolge e condiziona le invenzioni formali è nel ciclo, assai lungo e fitto di lavori, delle sagome. Che sono proprio sagome, contorni di uomini e donne, grottescamente deformati e posti in fila, addossati gli uni agli altri, sovrapposti, intrecciati, trascinati qua e là, inquadrati in tasselli da mosaico e svolazzanti come se fossero ritagliati da una forbice, ammassati in un involucro, scossi in uno shaker come delle gocce di un liquido, o costretti in cornici di classica compostezza.
Che ci sia o no un titolo, un tema discorsivo sotto a tanti studi di umanità qualunque, senza volto, poco importa. La correlazione allegorica si coglie nel fatto stesso di insistere su queste fughe di sagome-ombre su piani paralleli che paiono – e sono, in definitiva – tavole di palcoscenico che si prestano ad una recita quotidiana senza fine nè principio, ad una sfilata anonima che ha l’unico torto di indulgere ad un’eccessiva autocompiacenza.
Ora, una simile esibizione, un poco sfacciata e molto pomposa, è riscontrabile nella raccolta di figurine che l’artista ha completato di pari passo illustrando libri; una collezione, un album di famiglia tanto più interessante, e ricco di umori, allorché ha l’occasione di uscire dai moduli tradizionali, e costrittivi, della favolistica asessuale, stucchevolmente angelicata, per dilatarsi nella caricatura o rapprendersi nelle cadenze familiari del dialetto e lì, in quella dimensione argutamente domestica, scherzare un poco sui vizi della gente.
C’è dunque l’umorismo, a fare da contrappunto, da controcanto in sordina, ai resoconti della finestra che Maraja spalanca su ciò che lo circonda, restringendo sempre più l’angolo visuale, avvicinandolo volutamente per esprimerlo meglio. Ci sono anche il ricordo, il senso dell’attesa, la tensione dinamica. Ma non c’è posto per l’amarezza, la noia, l’invidia, nell’inseguirsi delle illustrazioni.
Piuttosto, come si riscontra in qualcuna delle opere più recenti, potrebbe far gioco l’insidia della piacevolezza: della ricerca, cioè, di una grazia senza giustificazioni tematiche, di una forma ornamentale troppo epidermica che non riesce a colmare il vuoto interiore con l’armonia delle proporzioni.
Ma persino gli esiti meno felici o più gratuiti sono una riprova ulteriore dell’equivoco che abbiamo cercato fin qui di evidenziare: che senza un appiglio argomentativo Maraja rischia di limitarsi ad un’accademia firmale ingiustificata. È invece nell’ illustrare nello spiegare a se stesso ed agli altri come l’uomo si adatta al proprio destino, credendo magari di padroneggiarlo, che l’opera del comasco-ticinese tonifica la sua binata radice culturale. Con umiltà, riserbo e insieme serena padronanza di mezzi.